Nello spazio del web galleggiano, abbandonati per ragioni le più varie, blog lanciati, strutturati, curati ora meglio ora peggio, ora lungamente ora a tratti. Galleggiano finché l’hosting dura, magari persistono al supporto sul quale salvammo la password di accesso, poi svanita.
Vaga dunque anche questa mia raccolta di cartoline, avviata per provare un cellulare nuovo. Nei giorni passati, attraversando i luoghi di Pordenone radicalmente, ancorché per poco, ridisegnati dalla presenza alpina, mi è venuto in mente di tornare a considerare questo piccolo blog, sicché anche le foto e le impressioni che vi si erano attaccate ne hanno germinate altre, secondo una leopardi accezione del funzionamento della memoria. Fatto si è che mi pare tempo di rivisitare queste foto e queste note, a cogliere gli strati del tempo e le differenze (13 maggio 2014)
Nei giorni degli alpini, tutto lo spazio davanti al porticato della chiesa era occupato da una striscia di camper e tende. Un’immagine per me doppiamente antica: rimandava al luna park che qui s’insediava anni addietro, prima dell’edificazione, ma anche, più remotamente, agli accampamenti che nel basso Medioevo si sviluppavano, presso le cattedrali, in occasione delle fiere. E quel porticato lungo viale della libertà, così collocato in capo a una mediazione, ha assunto davvero un ruolo di accoglienza. (13 maggio 2014)
Dove sta il campanile a tronco di cono di Mario Botta, fino a trent’anni fa c’era il luna park di Pordenone, che arrivava ai primi di maggio e restava per tutto il mese.
L’arrivo delle giostre era l’annuncio della fine dell’anno scolastico, insomma, e le serate al luna park con i compagni di classe erano spesso quelle nelle quali ci si salutava prima di sciamare verso le vacanze, erano quelle nelle quali tutte le novità concomitanti rendevano possibili dichiarazioni, mezzi bacetti, primi o definitivi litigi.
Per me il luna park di Pordenone aveva significato, prima di tutto, il pensiero che si poteva vivere un anno di scuola a pezzetti. A maggio arrivavano, nella nostra scuola elementare di via Fonda, i figli dei giostrai. Venivano inseriti nelle classi, di solito almeno a coppie, per farsi un po’ di compagnia, e portavano il loro esotismo a noi sedentari della formazione primaria. La curiosità delle storie che raccontavano colmava, ai nostri occhi (meno a quelli di maestri e maestre) la precarietà delle loro competenze in leggere e far di conto.
Il luna park ha poi significato una sera dei primi di giugno, alla fine della quarta ginnasio, con i compagni di classe. Una sera dei giugni pordenonesi della mia infanzia e adolescenza, insomma fresca e preceduta da una sana giornata di pioggia. Quella sera scoprivo il piacere di parlare con compagni diversi dalla cerchia dei miei amici stretti, mi liberavo, alla fine di un anno, dell’aver misurato sull’unico metro scolastico quasi tutte le mie relazioni in classe di quell’anno. Avevo passato un anno da spaventato, ecco quello che era, spaventato di non farcela, io che venivo da una scuola media di scarsa fama, da una famiglia di modesta istruzione, e avevo tradotto quello spavento in una visione monotematica del mondo. Non lo potevo sapere, quella sera mi liberavo di un fardello e mi aprivo alle sorprese di amicizie nuove che avrebbero segnato quell’estate.